Cultura della Cura, Cultura della Droga – Crest, centro per il recupero dei tossicodipendenti

Quando si utilizza il termine di risocializzazione in riferimento a pazienti abusatori di sostanze psicotrope, si instaura un processo di assimilazione ad una cultura astinente, o si instaura un biculturalismo quale risultante di una dialettica in cui so dove sono – o forse fino a dove posso spingermi? Spesso si verifica una non coincidenza tra disease (la conoscenza oggettiva che si snoda in diagnosi-prognosi-trattamento) e illness (il racconto soggettivo della malattia), in parte perché il paziente non è in grado di approdare ad una consapevolezza del proprio disagio, nella misura in cui esso si trova a soffocarlo o a negarlo (a non dirselo, a non narrarlo) mediante il pieno assorbimento nella propria micro-cultura “deviante”, per lo meno finché è tenuta viva da veicoli capaci di replicare informazioni culturali, inerenti al senso di appartenenza o ad un’istanza comunicativa non consapevole per il soggetto – che può esplicitarsi in un intento punitivo nei confronti dell’altro, differenziatore, delineatore di un’identità apparentemente salda e accentratrice.

La sostanza stupefacente è un artefatto, informa su significati condivisi il micro-gruppo e l’extra-gruppo, sia esso sociale o famigliare, talora in maniera inconscia e di conseguenza non immediatamente coglibile da quest’ultimo né dal soggetto; a questo livello il lavoro terapeutico è volto alla consapevolezza, a ritornare sul racconto di un illness negato, in cui l’artefatto si pone a metà strada tra la propulsione al disvelamento (ci si chiede che cosa ci vuole dire il paziente con la sostanza o con agiti culturalmente connotati) e il vantaggio della protezione e del disconoscimento del disagio che esso offre.

Il mediatore culturale, sorta di artefatto di secondo grado, (come, nel caso di una Comunità Terapeutico-riabilitativa, può essere ridefinito un ex tossicodipendente formato e divenuto operatore sociale) “dice” le diversità tra me (terapeuta) e te (paziente) e attesta anche la vicinanza tra me (terapeuta) e lui (mediatore culturale), generando una transitivizzazione e dando adito ad un fattore che contribuisce ad alimentare una possibilità di un cambiamento. Il mediatore esplicita una dimensione collettiva non condivisa ma ne attesta, in tal caso, la possibilità di negoziazione che passa dal riconoscimento di due emici nella prospettiva di un etico relativo (cioè inerente a quel particolare contesto interattivo).

Si verifica un posizionamento all’interno di un andirivieni dialettico, fatto di attestazioni di comunanze e vicinanze o, al contrario, di distanze siderali, narcisisticamente intese o culturalmente stabilite e transculturalmente irrealizzabili.

Si parta dalla considerazione che la cultura svolge delle funzioni non solo patogenetiche (non tanto quale influenza ambientale su una predisposizione genetica, secondo una logica interazionistica, ma in quanto costruttrice del modo di intendere la patologia e di avverarla e dunque di sancirne l’esistenza), non solo patoplastiche, ma anche reintegrative ed elaborative: in questo senso ogni terapeuta, come operatore della sua cultura, agisce in nome e per conto di essa – con la possibilità che essa sia differente da quella del proprio paziente. Nel caso in esame, nel contesto terapeutico-riabilitativo, si verifica l’acculturazione alla cultura astinente, non essendo possibile un biculturalismo, un’alternanza cioè tra le due culture, nella misura in cui il ritorno alla cultura non astinente provocherebbe un assorbimento completo del paziente in tale cultura, a motivo della prevalenza di un’esperienza ottimale impagabile quale può essere l’assunzione di sostanze stupefacenti (fatte salve, ovviamente, le conseguenze a lungo termine e tenuto conto della narrazione che il paziente fa di queste esperienze, collegandole alle proprie vicende esistenziali e personali). La comunità terapeutica ha dunque funzione reintegrativa e ritualizzante rispetto ad una crisi; al servizio della cultura astinente, si pone quale elemento di riassorbimento della derive culturali (micro culture) non astinenti, e si pone al livello essenzialmente difensivo della costruzione artificiosa di margini e argini (astinenza da qualunque sostanza, alcol compreso), giustificandoli con il ricorso al costrutto della personalità individuale patologica e tale da non poter vivere (o tornare a vivere con una qualità di vita migliore) lungo le fasce borderline, tra le culture, cioè nella realtà della postmodernità.

Il rito terapeutico permette che si possa parlare di sostanze esclusivamente in un certo modo (in modo critico, serio), o esclusivamente all’interno dei colloqui individuali e dei gruppi terapeutici, in cui il disordine (cioè l’autoregolazione emotiva chimica o la disregolazione emotiva cercata e correggibile) viene detto e non agito – o, in altri termini viene ritualizzato secondo forme e modi socialmente accettabili, manipolabili, istituzionalizzati).

Tale procedimento è un dispositivo fortemente normato per disciplinare la crisi, nel tentativo di risolverla in un nuovo equilibrio, sostituendo cioè, la funzione protettiva chimica con una funzione protettiva culturale (il rito comunitario) che parla sì mediante un idioletto, ma lo fa nei termini di un’addizione iperprotettiva al servizio della cultura border-land (degli astinenti e dei semi-astinenti).

E’ evidente come la funzione protettiva della Comunità Terapeutica viene svolta su due binari distinti ma integrabili: il canale emotivo e il canale razionale. Muovendo dalla riflessione di De Martino, diremmo che non solo il razionale protegge, ma lo fa anche l’irrazionale, e i due costituiscono un unico circuito – così come, in termini diversi le teorizzazioni alla base della terapia dialettico-comportamentale pongono in luce (nella distinzione tra pensiero emotivo, pensiero razionale e pensiero equilibrato). Si tenga presente che non necessariamente, a mio avviso, l’emotivo e il non razionale perdono di efficacia se non analizzati (così come si discute del proprio controtransfert), e ciò è evidente nell’emersione di pratiche irrazionali nelle culture, la cui efficacia è scevra da questioni di consapevolezza e talora nasce dal caso, dall’estetica (sia nel senso di gusto, sia nel senso di percezione, propriocezione e movimento, di “scarica energetica”, di uso del corpo in modo risolutivo o calmante etc.). Volendo operare uno scavalcamento di livello di analisi, si potrebbe pensare come talora gli atti di passaggio possono verificarsi mediante passaggi all’atto, agiti.

La funzione della riunione d’équipe, è, in parte, quella di evitare sbavature collusive che potrebbero verificarsi nella transazione tra le culture: il mediatore culturale, ad esempio, parla il linguaggio della transazione senza colludere con il paziente, e contribuendo alla formulazione di un’adeguata analisi della domanda.

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